Ok, questo è un post stronzamente nostalgico, ma oggi va così. Colpa di Facebook, che – pronti via – mi ha sbattuto in faccia un ricordo di cinque anni fa, raffigurante la mia brutta faccia e quella del buon Claudio Todeschini (più accettabile, onestamente), mentre ammiccavamo alla fotocamera prima dell’imbarco per Los Angeles. L’anno scorso non ci ho fatto troppo peso, perché la mia avventura da giornalista professionista nel settore dei videogiochi era conclusa da poco: avevo bisogno di rifiatare e l’unica concessione al rammarico si era accesa quando, sempre Facebook (Zuckercoso maledetto!), mi aveva rimembrato di una cameriera del Saddle Ranch cui avevo lasciato un pezzetto di cuore. Oggi, a distanza di un anno e rotti fuori dal settore, certe cose fanno più male, e non posso più permettermi il lusso di non farci caso.
Dopo 21 anni a praticare il medesimo mestiere, d’altronde, farsi un po’ prendere dalla nostalgia è nell’ordine delle cose. Peraltro, gli ultimi due E3 da giornalista li ho vissuti in Italia, perché il budget era risicato e c’era necessità di qualcuno che dirigesse le operazioni dalla redazione milanese, dopo le defezioni di Mr.Tosini e Mr.Marangon, giustamente volati verso altri lidi perché oh… il mutuo non si paga da solo. Peraltro, il fisico era quello che era: le fatiche delle trasferte losangeline sono cose che si assorbono facilmente quando sei nei trenta, un po’ meno quando le primavere sulle spalle hanno passato i quaranta da un pezzo.
Dopo 21 anni a praticare lo stesso mestiere, farsi un po’ prendere dalla nostalgia è nell’ordine delle cose
E, tuttavia, non posso non guardare con benevolenza alle sfacchinate che negli anni io, il già citato Claudio e molti altri abbiamo accumulato, pur di vivere e raccontare a chi ha voluto seguirci le prelibatezze della fiera più importante del settore. Ci sono state edizioni in cui ci siamo presentati ai nastri di partenza solo in due (non esclusivamente con l’ultimo editore di The Games Machine, ma anche col penultimo), perché – come ribadito chiaramente qui dal buon keiser, in un’editoriale che vi invito a rileggere – ultimamente si esercitava la professione più per passione che per convenienza economica; eppure, anche in pochissimi abbiamo tenuto botta tanto quanto la più blasonata concorrenza formata da dozzine di elementi, dormendo due ore per notte e macinando chilometri su chilometri zaino in spalla, pur di riuscire a vedere il più possibile e di farci un’idea chiara su cosa sarebbe accaduto nei mesi a venire.
Ricordo ancora di aver partorito un frizzante Backstage sulla rivista qui sopra citata, di ritorno dal mio primo E3. Scrissi che il mio impatto fu quello di un bambino che si trovava per la prima volta a girare per Disneyland, quando fino a poco prima era abituato alle sole giostre di paese. Ogni viaggio a Los Angeles è sempre stato così, per quanto mi riguarda; tutte le volte che sono tornato a calcare il suolo natio mi sono baciato i gomiti e ho ringraziato per la fortuna che avevo avuto. Per un bel pezzetto della mia vita ho esercitato il mestiere più bello del mondo, laddove l’E3 era più un premio per l’impegno e l’abnegazione, piuttosto che uno sbattimento da cui fuggire.
Per questo, e per tanti altri motivi, oggi è per me un giorno triste. Le mie timeline sui social sono piene di persone che stanno partendo per gli Stati Uniti. So che la stragrande maggioranza di loro parteciperà “per la gloria” e che, di contro, saranno pochissimi quelli che vedranno retribuito lo sbattimento con ciò che – in un mondo normale – dovrebbe essere ritenuto un giusto compenso economico. E poco importa se questa edizione, come quella precedente, porti addosso i segni della stanchezza di un format che, nei prossimi anni, rischia di essere sostituito da appuntamenti più mirati, opportunamente spalmati lungo i dodici mesi dell’anno: a chi ci sarà va il mio migliore augurio di “buona sbatta”, e anche un pizzico di sana invidia. Divertitevi e godetevi ogni momento, fintanto che avete la fortuna di esserci.